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3 dicembre 2014

Dipingendo il Trono di Gloria

Dipingendo la Croce, un pensiero invade mi scuote: Egli - sì - muore in croce ma risorge, come fare per non bloccarne esclusivamente l'atto della morte ed evocarne anche la sua gloriosa risurrezione? Perché di fronte alla crocifissione di Gesù ci si deve fermare alla morte o ancor prima al patire di Cristo, quasi interrompendo il processo di trasfigurazione che va verso la glorificazione del Risorto?

Nella contemplazione della bellezza della croce emerge una sicurezza di fondo e un accortezza centrale da tenere sempre presente; quel Gesù che muore in croce risorge. Nell'obbedienza della croce si ha un punto fondamentale per cogliere il dialogo personale tra il Figlio e il Padre suo, da cui si realizza un dono libero che conduce prima alla morte e poi alla risurrezione, l'amore. Tale dono è un processo indivisibile di umiliazione ed esaltazione, abbassamento ed innalzamento, svuotamento e pienezza, morte e vita.

Qualunque sia lo sguardo dello spettatore, il movimento dell'anima conduce ad avvertire qualcosa di essenziale, quel Gesù muore lì in croce; l'avvertenza di fondo rimane quella centrale, cioè non smarrire mai il riferimento della vicenda storica concreta di Cristo, alla sua reale umanità e alla sua reale risurrezione.


Nel Cristo crocifisso, le parole del salmo “Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, ti ha benedetto Dio per sempre” (Salmo 44, 3), devono richiamare la bellezza del suo corpo ma anche il mistero profondo del progetto di Dio; da qui la decisione di rappresentare il giovane corpo di Cristo senza vita e l'essere inchiodato ad una croce blu per richiamare il mistero divino di questo supremo atto di amore. Il capo inclinato in avanti, appoggiato al suo petto, gocce di sangue che solcano il suo volto, i suoi polsi, i suoi piedi, tutto il suo corpo segnato dall'accanimento dei suoi aguzzini. Cristo sembra come staccarsi da quel fondo composto di mistero e gloria, dalla solitudine in cui si è calato, per donarsi allo spettatore quasi tridimensionalmente ed è qui un primo passo per superare il solo concetto di morte ed andare oltre, verso la risurrezione. La voluta tridimensionalità è un modo per non lasciare la figura di Cristo appesa alla croce, ma in un moto di distacco da essa sottolinea l'andare oltre della storia, il dare compimento totale al disegno salvifico di Dio; dopo la passione e la morte vi è la risurrezione del “Figlio prediletto” (cfr. Mc 9, 7).

Una doppia corona circonda il suo capo: una di gloria rivista nell'aureola dorata posta attorno al suo capo  tripartita con le lettere greche “O ON” (colui che è) e una di spine che richiama le parole dell'evangelista “Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!»”(Mc 15, 17-18).

Non nascondo delle influenze date da grandi opere d'arte che hanno segnato il mio cammino ed in particolar modo lo splendido Crocifisso di Giunta Pisano che si trova nella Basilica di san Domenico di Bologna e il Crocifisso che si venera nel Santuario di Madonna dell'Arco (scultura lignea seicentesca). Dal primo nasce l'impianto compositivo dell'opera, mentre dal secondo l'armonioso richiamo anatomico del corpo di Cristo. La croce è sagomata appositamente per la costituzione di questa opera; nella composizione dei vari materiali che la definiscono si può chiaramente risalire al concetto di incontro tra divinità ed umanità dato dal richiamo orientale delle icone; il legno, l'oro e il colore, praticamente il creato si incontra con il Creatore e in particolar modo con l'uomo, la creatura che Egli ama.

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Fra Michele Domenico Maria Spinali o.p.

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